di Maria Grazia Di Mario
Un ex Convento Francescano e un antropologo si incontrano e accade il miracolo. Da modesto magazzino di attrezzi comunale il complesso inizia a riacquistare dignità e identità, attraverso un lavoro di ristrutturazione, ancora in progress, che ha donato a Leonessa (Rieti) un Museo Civico con sezione Demoetnoantropologica ed Archeologica. A raccontare questa storia straordinaria il suo nuovo guardiano e creatore: il ricercatore Mario Polia.
Il Convento di San Francesco a Leonessa (Rieti), meglio definito come ex-Convento annesso alla Chiesa di San Francesco ed appartenuto dalla fine del Duecento e fino al 1809 ai Frati Conventuali dell’Ordine Francescano, fu fondato su decisione del re Carlo d’Angiò, subito dopo Gonessa (oggi Leonessa), il 16 luglio del 1278. Forse in conseguenza della profonda considerazione che la corte angioina nutriva nei confronti del giovane Ordine francescano fece stabilire nella città il primo nucleo di Frati Conventuali. In realtà fu edificato sui precedenti resti della imponente Chiesa di Santa Croce. Dopo svariate vicissitudini dovute a terremoti, oggetto dunque di ricostruzioni ed ampliamenti, venne utilizzato fino al 1839, fu Napoleone a disporne la chiusura e la destinazione a carcere e tale rimase fino agli Anni Cinquanta del Novecento. Successivamente venne adibito a magazzino/ripostiglio di attrezzi del comune.
“Pian piano lo abbiamo fatto ristrutturare ed ora è un centro culturale che ospita il Museo Civico e, nel Refettorio, il Museo Demoantropologico” ci spiega Polia mentre, con il saldatore, finisce di sistemare l’installazione in bronzo per un nuovo “arrivato”.
“Questo di Leonessa è un vero laboratorio in progress dato che anche i lavori di ristrutturazione ed allestimento dei locali sono ancora in corso, così come la sistemazione di nuovi pezzi, tutti donati da privati, proprio oggi mi sono stati consegnati altri 2000 oggetti su volere di un anziano del luogo, che confluiranno nella sezione demo-etno-antropologica. Sono davvero molti e non saprò dove sistemarli, per ognuno dovrò immaginare un allestimento diverso, personalizzato in base alla forma. E’ un lavoro enorme”.
Nonostante la necessità di ultimare alcuni restauri ed installazioni prima del 1° agosto, mese che vede arrivare numerosi visitatori, lo studioso ci accompagna in un tour all’interno dei tre spazi già allestiti e la sua presenza si rivela indispensabile, nessuno può spiegarci meglio di lui criterio, importanza e storia degli oggetti esposti. Ogni pezzo è accompagnato da una scheda che non riporta solo il nome del donatore, ma indica il tipo di strumento e le ritualità ad esso connesse. Attraverso l’illustrazione dei reperti museali della Sezione Demoantropologica, il Museo Civico di Leonessa, si propone infatti di guidare il visitatore alla conoscenza delle tradizioni della società rurale dell’altopiano leonessano. “A questi oggetti, muti testimoni della vita quotidiana, il Museo si propone di dare un significato e una voce. Un reperto museografico non è solo il prodotto di una tecnologia: è espressione di una cultura che, oltre ad usare l’oggetto per i fini cui è destinato, annette al medesimo valenze e significati che spesso esulano dall’uso pratico e dalla sua fisicità. Daremo di seguito alcuni esempi tratti dalle tradizioni locali – ci spiega il direttore del Museo -. Gli attrezzi di ferro usati per il focolare domestico (la catena da fuoco, la paletta, le molle) quando il maltempo minacciava il raccolto, venivano gettati sull’aia per scongiurare grandinate e temporali. L’umile ramazza domestica, posta capovolta dietro l’uscio, assurgeva al ruolo di potente amuleto che impediva le irruzioni notturne delle “sdreghe”. La madia in cui si preparava e conservava il pane, era anche usata per guarire i neonati figli d’una madre che durante la gravidanza aveva mangiato carni di animali azzannati dal lupo trasmettendo al feto un “veleno” che rendeva il neonato “allupito”: rabbioso, aggressivo e insonne come il predatore notturno”.
Tutti aspetti spiegati nelle varie esposizioni, che trasformano questo luogo in un racconto antropologico.
Il Museo è diviso in due sezioni: “La casa e le attività domestiche con i lavori di una volta”, “I mestieri e le arti femminili”.
Gli oggetti (nel primo settore) sono stati selezionati in base alle professioni prevalenti svolte dagli abitanti del luogo nell’ambito della casa e connesse alla sopravvivenza del nucleo familiare. Iniziamo il tour con la coltivazione della famosa patata, oggi meglio nota come leonessana.
“E’ una patata speciale che iniziano a coltivare qui dalla seconda metà dell’Ottocento, prende piede poco a poco ma diventa una risorsa alimentare doc, lo strumento che vede veniva utilizzato proprio per coltivare i campi di patate – spiega Polia – Quello invece è un altro tipo di aratro tradizionale ma con una modifica importante, ottenne un brevetto europeo. Negli Anni Venti/Trenta fu un fabbro di Leonessa ad inventare questo gancio e la rotazione del soglio. L’aratro denominato voltaorecchio, o anche detto reversibile, come dice la parola stessa, ha la peculiarità di avere vomeri speculari e questo consente di continuare il lavoro di preparazione del terreno in entrambe le passate, senza mai interrompere la lavorazione. Lo considero un ottimo esempio di restauro, è rimasto abbandonato su un’aia per circa 30 anni ma adesso, se ci rimetti i buoi, riari senza problema. L’ho nutrito con lo xilolo ed altri tipi di resine e iniettato con l’antitarlo, ma non era tarlato perché il legno è stato tagliato sicuramente con la luna calante inoltre è di faggio, molto duro e buono, la conservazione e la possibilità di restauro dipendono dalla qualità del legno. E’ un pezzo rimasto diverso tempo sotto l’acqua, ma l’ho fatto ritornare come nuovo”.
Puoi indicarci altri pezzi rappresentativi delle attività locali, da te restaurati e scelti per l’esposizione?
“Qui ci sono le trappole dei lupari di Leonessa, le famose tagliole, questa è da volpe perché serve a spezzare la zampa, al lupo invece non devi tagliarla ma solo bloccarla, perché con tre zampe corre ugualmente. Allora c’era un mestiere chiamato dei lupari i quali mettevano queste trappole, poi la mattina facevano un giro di controllo e finivano il povero animale col retro dell’accetta. Il corpo veniva messo su un somarello o su un cavallo e portato in trionfo per le frazioni al fine di ricevere doni, questa attività era considerata molto utile in quanto i lupi mangiavano le pecore, ha resistito fino agli Anni Cinquanta poi è stata vietata (giustamente) per la protezione del lupo. Quella invece è una trappola da sorcio”.
Polia continua nella descrizione…
“L’arrotino è un’altra delle attività tipiche, con questa macchina, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, questo arrotino riusciva a mantenere l’intera famiglia, l’ho rimessa completamente a posto e funziona perfettamente. Quello è un altro tipo di mola, funziona come le mole medievali a pedali, qui ci si mette l’acqua che gira pedalando e qui poggi l’attrezzo e lo arroti. Questi invece sono i mescolatori da formaggio”.
Per quale ragione esponi di solito anche i santi protettori?
“… ogni attività ha il suo santo protettore, è necessario inserirli altrimenti realizzi il solito museo innaturale che espone solo una parte, quella materiale, l’oggetto, ignorando società e ritualità che vanno rappresentate nel loro insieme. Questo è uno scardasso professionale di fine Ottocento e serviva per cardare la lana, generalmente gli scardassari giravano col carretto e rifacevano la lana dei materassi”.
Quanto è importante donare, ogni oggetto esposto riporta il nome del donatore.
“Con la donazione si garantisce una continuazione della memoria delle attività svolte. Nella maggioranza dei casi i donatari sono artigiani del posto, ormai anziani decidono di cedere i loro macchinari ed utensili, al fine di evitare che figli e nipoti se ne liberino buttandoli, o vendendoli. Questa è la parte della sala espositiva dedicata alla mietitura, con gli attrezzi necessari. Ho esposto due falcetti, uno da uomo ed uno da donna, perché di solito si preferiva la coppia, si era visto che si spronavano a vicenda, spesso nascevano relazioni amorose, cantavano stornelli. Quello è un pezzo raro, la morsa da sellaio, sono tutti doni importanti, oggi dove li trovi più? C’è anche il cesto per portare il cibo (almeno 6 volte al giorno) ai mietitori, i proprietari del campo lo poggiavano sulla testa, è curioso vedere come conservi l’intreccio che ammiriamo nei quadri del Caravaggio. La gente al suo arrivo acclamava e gridava stornelli di ringraziamento. Questa era la botticella per il dissetante che tradizionalmente veniva riempita con acqua e aceto, una consuetudine arrivata fino agli Anni Sessanta. Si tratta di una pozione che troviamo anche nelle legioni romane, in latino si chiamava posca ed è la stessa che dettero a Cristo sulla croce. Quella è l’arca da pane per conservare il grano, serve per la riserva di grano, ma conteneva anche formaggi. Veniva chiusa con il lucchetto per mettere al sicuro il contenuto dai topi, ma anche dalla famiglia. Quando chiedi agli anziani a cosa servisse quel lucchetto ti rispondono che la fame era grande, vecchi, donne e ragazzini a quei tempi avevano molta fame… Questa invece è la madia per impastare il pane. Il lavoro che facciamo qui al Museo è di rimettere completamente a posto gli oggetti esposti, ma insieme anche di comunicare le usanze legate ad essi. Questa parte è dedicata alla coltivazione del farro con i principali strumenti dedicati che sono il mortaio in legno di olmo, molto antico ha quasi 200 anni, il pestello da donna, il pestello da uomo, i ventilabri dove il farro veniva messo la mattina presto, o la sera quando c’era vento. Si usava tirare in alto il farro così la pula se ne andava, però prima veniva passato qui dentro al fine di sbucciarlo. Queste sono le macinelle per preparare la farina e sono identiche a quelle che trovate a Pompei. Abbiamo anche vari tipi di tostatori in uso sull’altopiano, alcuni fatti personalmente, artigianalmente, altri … questo è uno schiacciapatate molto antico”.
Ma questo museo quando l’hai fondato?
“Nel 2002, con un piccolo nucleo di cose regalate”.
Cambiamo sezione espositiva, entrando in una parte dell’ex Convento ancora da ristrutturare, veniamo introdotti nella parte dedicata alle arti femminili. In questi locali viveva la Duchessa Margherita D’Austria. Con un privilegio datato al 17 marzo del 1539 l’imperatore Carlo V della Casa d’Asburgo concesse alla sua figlia naturale, la Duchessa Margherita, la città di Leonessa come dote per le nozze con Ottavio Farnese, nipote del papa Paolo III, avvenute l’anno precedente.
Nel 1550, con una speciale dispensa papale, nella parte della struttura conventuale prospiciente il fiume Tasceno, venne realizzata la magione della Duchessa Margherita d’Austria la quale aveva scelto il Convento di S. Francesco a sua residenza, durante le sue permanenze a Leonessa.
Margherita d’Austria amò molto Leonessa e ne trasformò l’assetto urbanistico e le strutture architettoniche degli edifici tanto che il vecchio borgo, che, ai tempi della Duchessa, doveva ancora conservare molte delle sue caratteristiche medievali, divenne un’elegante cittadina rinascimentale con uno stile improntato al gusto fiammingo. I rapporti fra la popolazione locale e Margherita –“La Madama” come la chiamavano e la chiamano i leonessani – furono eccellenti.
“Non ho voluto confondere la donna che lava i panni con la donna che ricama – ci spiega Polia – perché qui c’è creatività artistica. Questi locali ospitavano gli appartamenti di Margherita d’Austria, in una delle sale del suo appartamento ho sistemato gli attrezzi che venivano usati nel quotidiano per filare, tessere e ricamare. A Leonessa esisteva il Monastero delle Clarisse, esperte nel ricamo a livello internazionale insegnavano alle ragazze questa arte, questi sono i vecchi attrezzi con occhi e fusi, l’aspo per fare i gomitoli”.
E’ un lavoro encomiabile perché poi hai curato tutto in prima persona, incluse le installazioni, tutte in bronzo e realizzate a mano da te.
“Certo, tutto, le mensole, le spirali, nemmeno a casa mia ho fatto questi lavori! Sono facilitato dal fatto di conoscere l’arte del fabbro. Ecco, vedi, questa può sembrare una semplice installazione, che ci vuole a farla ci si può domandare? In realtà non è così scontato, l’oggetto deve ruotare in vari modi e lo devi saper fare”.
Polia ci indica un arcolaio come reperto importante, un vero pezzo da museo.
“La famiglia non ha voluto che mettessi il nome, hanno preferito rimanere anonimi, è un pettine da telaio antichissimo, questa è la spoletta, indispensabile per la lavorazione del tessuto. Qui a Leonessa ci sono diversi pezzi unici, rari, neppure nel Museo della Canapa, a Sant’Anatolia di Narco, hanno un reperto come questo. Questa qui è la vera antenata della Singer che usarono tutte le nostre nonne, uscita di produzione nel 1913 prende il nome dal cognome dell’operaio che la inventò, nel 1851. Quelli sono materiali per insegnare alle ragazzine il ricamo, siamo nel 1907, questi altri strumenti sono destinati alla lavorazione di un corredo degli Anni 40-50. In questo punto verrà inserita un’arca nuziale in legno massiccio, pressoché intatta. Questa sala è testimone di tutto ciò che riguarda la femminilità, vi troviamo la donna madre, la donna suora, la donna in attesa di matrimonio. Ho salvato anche molti materiali destinati alla distruzione, rinvenuti tra le macerie del Convento delle Clarisse. Questo arnese è un pettine che serve per cardare la rana. Vi racconto una curiosità, si dice che San Biagio venne martirizzato con uno di questi attrezzi il 3 di febbraio, per tale ragione in questa giornata c’era il divieto di pettinare, pettinarsi e di cardare la lana! Quella invece è la spoletta da telaio e questo è un altro pezzo straordinario: la sacca dove la matriarca teneva tutte le chiavi, generalmente era la più anziana, la suocera, la celava sotto il vestito ben legata perché altrimenti le provviste di carne, specie la carne di maiale, non arrivavano al raccolto delle fave, l’unica verdura che dava qualche proteina. In questa seconda stanza, ora vuota, andrà sistemato un grande telaio dedicato a Margherita d’Austria, Margherita era una grande ricamatrice, oltre ad essere una politica/filosofa e si ritirava spesso a Leonessa. Con un permesso speciale del Papa aveva ricavato un appartamento adiacente al vecchio convento e quindi abitava qui, questa era la porta che, con scala esterna, senza infastidire i frati, conduceva dentro l’appartamento”.
La visita si conclude con le sale dedicate alla sezione archeologica. Qui è esposta l’ormai famosa laminella rinvenuta da Polia con l’antico nome di Leonessa precedente a Gonessa (ossia Narnate). Nella prima saletta espositiva ci sono, oltre alla laminella, i resti di una sepoltura femminile donata e rinvenuta da una contadino del luogo.
“Ce l’ha consegnata intatta, un bel gesto – spiega Polia – possiamo vedere una fusaiola, la brocchetta d’acqua per il viaggio nell’aldilà, una lampadina, questi probabilmente erano i pezzi o di un telaio, o di uno sgabello, ci sono diversi chiodi, venivano messi nelle tombe reatine per tenere lontani gli spiriti malefici ed è una caratteristica solo di questo luogo. Quelle invece sono monete romane, ce n’è una che testimonia la transumanza in Puglia, se ne trovano molte nei campi arati, dopo la pioggia vai lì con calma ed emergono dalla terra, ho trovato cose stupende tra cui questi pezzi di metallo pre-monetali, difficilissimi da recuperare altrove. Dovrò disegnarle tutte e spiegarle ed anche questo lavoro è mio compito”. Nella seconda sala della sezione archeologica è il corredo della tomba femminile scavata da Polia nel 2001. Nelle vetrine (realizzate ugualmente a mano) si possono vedere i frammenti del letto funebre, le antefisse, le offerte sistemate fuori dalla tomba. La tomba custodisce una storia “romantica” tutta da scoprire (o da rappresentare, perché no?) dal momento che vi sono stati rinvenuti due bracciali, uno più piccolo da donna ed uno da uomo abbandonato al di fuori delle stanze funebri.
“La particolarità è che sono identici ma quello della donna è più piccolino, quello maschile si trovava all’esterno, assieme ai resti di una coppa. Probabilmente si tratta dell’ultimo saluto di un parente, forse del marito, l’uomo ha bevuto l’ultima coppa e poi l’ha rotta ed è andato via. La donna, dell’età di circa 42 anni, aveva una lunga chioma di capelli rossi, abbiamo avuto il privilegio di vederla per qualche secondo. Quando abbiamo trovato la tomba è stato fatto un piccolo foro per posizionare la macchina fotografica e documentare il ritrovamento, ma una fiammata ha disgregato tutto all’istante. Era certamente umbra, vissuta nel II secolo a. C., sicuramente altolocata per il fatto di essersi fatta costruire una tomba a volte sotterranea che ha resistito per secoli”.
E gli altri resti a chi appartengono?
“In una prima stanza c’erano le ossa di un accompagnatore maschio, non si sa se sacrificato o meno, la seconda ospitava la signora, gli altri sono di animali destinati al banchetto funebre. E’ interessante il fatto che ci siano le ossa di un porcellino da latte, il maiale era considerato l’animale sacro alla terra, caro alla Dea Maja, ci troviamo di fronte ad una antica usanza! C’è anche l’offerta di un bue macellato, fu scarnificato il giorno del banchetto, solo le ossa vennero deposte nella tomba, questo rituale ci riporta ugualmente ad un passato mediterraneo, nelle civiltà preindeuropee il toro rappresenta l’animale della resurrezione, quindi c’è un influsso di tipo micro asiatico che gli umbri avevano acquisito. Probabilmente l’idea era che questo bovino accompagnasse la donna nell’aldilà, garantendone la rinascita. E’ un rito molto bello e particolare”.