La rivelazione del senso: personale di Antonio Pusceddu a Palombara Sabina

La breve mostra delle opere di Antonio Pusceddu a Palombara Sabina (Piazza Vittorio Veneto, dal 9 all’11 giugno) offre la possibilità di un colpo d’occhio su una delle vie dell’arte contemporanea, quella che non ha mai perso di vista le radici della contemporaneità. Quelle radici, sembra dirci Pusceddu attraverso la sua visita guidata nelle sale espositive nella storica piazza palombarese, non sono solo legate alle origini di tutto, ma anche alle rinascite che sono avvenute nel corso dei millenni. La strada del Novecento, ad esempio, attraverso Miró ed Ernst, ha causato insieme una frattura con la mìmesis e una ripresa della linea e del punto che ritroviamo nel cammino dell’artista palombarese d’adozione. Una ripresa che sottintende il legame con quello che chiamiamo passato e che in realtà, secondo il pensiero che tra fine Ottocento e Novecento ha segnato la reazione all’oggettivismo e al determinismo e, soprattutto con Bergson, la concezione di un tempo come continua immersione nel flusso vitale.

Il senso di questa fusione tra linea retta, curvatura dello spazio -e del corpo- è visibile in molte opere, come nella tempera acrilica spruzzata su compensato Coppia e in molte altre in cui la curvatura delle linee del volto è essa stessa ritorno, piegarsi verso l’altro, assenso a questa circolarità dell’esistere che è fatta anche di microscopici punti e, insieme, linee. In opere come Esercito del pianto, una grande tempera acrilica, si materializza la parte nascosta del noi, quella che emerge nei momenti in cui il dolore, la percezione della ferita e della crepa, anche a causa di eventi collettivi come la guerra.

Le linee rette si fondono con la curvatura, con la mezzaluna degli occhi apparentemente impassibili e che hanno però in questa impassibilità la chiave di volta, come le avanguardie del Novecento, le teorie dell’impassibilità apparente e lo straniamento brechtiano hanno teorizzato nella fase della storia umana in cui nostalgia della bellezza rinascimentale e prima ancora giottesca si scontravano con l’insensatezza della strage e della violenza contro gli innocenti.

Nell’apparente immobilità dei Vasi di Pusceddu si coglie questa coscienza di fusione e insieme frantumazione delle cose, della percezione dell’unità e insieme della sua divisione e frantumazione e/o geometrizzazione.

Una delle sintesi di questo continuo lavoro dell’artista sulla materia e non solo sulla tela o sul compensato è l’opera compiuta con materiali di recupero dedicata al padre: nulla di celebrativo o retoricamente nostalgico, ma l’emergere all’orizzonte visivo degli strumenti del papà fabbro su un fondo in cui il nero e il rosso dell’azione anche visiva del fuoco emergono in un impressionante universo materico e cromatico in cui sono presenti le fasi della realizzazione dell’opera minuta del fabbro, come il coltello.

La materialità del riuso del legno e non solo, l’omaggio non tanto all’opera paterna ma a quella di quanti hanno  creato attraverso quella materia strumenti che a loro volta emergono nelle epifanie dell’uso quotidiano e del loro riaggallare nella percezione abissale del senso e della quotidianità -altra lezione fondamentale del Novecento non solo figurativo, ma anche di Joyce e Woolf- fanno della mostra e dell’opera tutta di Antonio Pusceddu un passaggio importante che dal magistero di certo Novecento si allontana, da una parte e dall’altra: dalla materia dell’arte arcaica fino al simbolo e alla linea curva del femminile, della maternità, dell’abbraccio e del sì, anche e soprattutto dell’arte, al pianto e al sorriso.

 

MT

 

Author: redazione